lunedì 19 ottobre 2015

LIBERTÀ SINDACALI ADDIO?


Diritto di sciopero e di assemblea nei servizi pubblici, e non solo.
La contrattazione nazionale e la questione salariale.
A che punto siamo …

Il mese di luglio 2015 (dopo l’assemblea sindacale dei lavoratori del sito archeologico di Pompei, con file di turisti in attesa che finisse, e dopo le iniziative di lotta dei lavoratori del trasporto pubblico di Roma, le une e le altre canagliescamente diffamate dall’informazione di regime) ha scatenato la libera uscita di avvoltoi governativi.
A settembre, poi, è toccato ai lavoratori del Colosseo di essere messi alla gogna come nemici dell’Italia, perché, dopo regolare preavviso, hanno fatto un’assemblea di 2 ore, su prospettive occupazionali, adeguamento dell’organico, pagamento di straordinari abbondantemente arretrati , salario accessorio.
 “L’assemblea non doveva essere tenuta”, ha sbraitato in televisione Dario Franceschini, ministrucolo della cultura.
“I turisti sono stati in coda, come a luglio a Pompei, in attesa che l’assemblea finisse”, ha continuato a sbraitare, “e questo dà un’immagine negativa dell’Italia”.
Come se lui e il suo governo l’immagine dell’Italia all’estero, la dessero positiva.
E, con sacro furore totalitario, ha preso carta e penna e s’è messo a scrivere un decreto-legge per abbattere libertà sindacali, quali il diritto di sciopero e di assemblea, nei vari settori dei beni culturali (musei, siti archeologici, ecc.), da considerare, secondo lui, quali servizi pubblici essenziali.
Da trattare, cioè, come se fossero servizi ospedalieri.


I segretari di categoria della Cisl e della Uil hanno preso le distanze dai lavoratori in assemblea, aiutando così il governo Renzi nella approvazione di nuove norme antisindacali, delegittimando la RSU che l’aveva indetta, offrendo al governo la loro disponibilità a costruire insieme regole più restrittive di quelle vigenti per il diritto di sciopero e di assemblea, nonché riduttive del potere di contrattazione delle stesse RSU. E brave Cisl e Uil!

Di che meravigliarsi?
L’iniziativa di Franceschini è stata salutata da applausi scroscianti da parte dei nemici di lungo corso dei lavoratori, come i senatori Ichino e Sacconi (tutt’e due di area governativa: il primo in quota PD, il secondo, già socialista, poi forzista, oggi in quota NCD), i quali, tra l’altro, avevano già depositato in parlamento disegni di legge finalizzati a cancellare quel poco che esiste come diritto di sciopero e di assemblea in alcuni servizi pubblici, come quello dei trasporti.
Anzi, rispetto alla libertà di tenere assemblee, essi vanno più in là, perché vogliono colpire con norme liberticide tutto il mondo del lavoro, senza distinzione tra settori pubblici e settori privati.

Di che meravigliarsi?
Questo è il governo del decreto Poletti, che ha ingigantito la precarietà del lavoro rendendo infinito il calvario del lavoro a termine.
Questo è il governo del jobs act, che ha concesso ai padroni pieno arbitrio di licenziare i nuovi assunti, di demansionare chi lavora, di spiarlo con telecamere e strumenti di lavoro, quali cellulari e tablet; che ha precarizzato gli ammortizzatori sociali, quali la cassa integrazione e i contratti di solidarietà.
Questo è il governo che sta facendo riforme istituzionali che intendono sopprimere ogni libertà.

A luglio come a settembre, per rendere niente più che simbolico l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici, in particolare nel settore dei trasporti, si sono rispolverati disegni di legge (ddl), già presentati negli ultimi anni: quello del senatore Pietro Ichino nel 2009 e quello del compare Maurizio Sacconi nel 2014.
Anzi, Ichino, in buona compagnia di colleghe e colleghi del PD, ne ha presentato un altro (il ddl n. 2006) il 14 luglio di quest’anno.

L’accoppiata
Sacconi e Ichino -vi pare strano?- hanno avuto nella loro carriera esperienze sindacali nella Cgil.
Sacconi era entrato nella Fiom in gioventù, come dichiarò in una intervita del 2008 (quando divenne ministro del lavoro con l’ultimo governo Berlusconi per restarci fino al 2011, anno in cui in pieno agosto emanò il decreto legge n. 138 tuttora in vigore, che all’art. 8 prevede la deroga a livello di contrattazione aziendale di norme presenti nei contratti nazionali e nelle leggi), soprattutto perché voleva opporsi a quegli “estremisti dalla pancia piena” che, a suo dire, erano i giovani e meno giovani che nel “sessantotto” lottavano nelle fabbriche e nelle scuole, nei quartieri e nelle piazze.
Ichino dal 1969 al 1972 se l’era fatta con la Fiom come dirigente, per passare dal 1973 al 1979 a dirigere l’Ufficio legale della Camera del lavoro di Milano, facendosi lì le ossa per diventare un accademico, con tanto di docenza universitaria, in diritto sindacale e del lavoro. Chapeau, professore, anche per la sua abilità a non perdere occasione per sputare veleno sui lavoratori, come ha fatto nell’intervista rilasciata alla “Repubblica” dell’11 ottobre sul cosiddetto “salario minimo” e sulla fine della contrattazione nazionale: un esempio di politica sindacale di alta ispirazione democratica!!!
I due esimi moschettieri sono impegnati a combattere il diritto di sciopero, perché -nientemeno- hanno a cuore, come dichiarano senza vergognarsi, i diritti degli utenti dei servizi pubblici, terreno, come tutti gli altri settori lavorativi, di possibili scioperi.

Quando gli utenti sono oggetto di tasse a sovrattasse; di ticket sanitari più che esosi; di liste d’attesa di mesi e mesi per una visita specialistica o per un esame; di code e code nelle ore di punta alle fermate degli autobus; di mezzi di trasporto, compresi quelli ferroviari, che più sgangherati non si può (tant’è vero che viaggiano con ritardi spesso clamorosi o saltano corse su corse); di scuole e aule fatiscenti, in cui i lavori di restauro e manutenzione vengono rinviati all’infinito; quando gli utenti, che molto spesso non sono dei nababbi ma dei lavoratori dipendenti o dei disoccupati, si ritrovano di anno in anno sempre più senza diritti, alla mercé di gerarchie aziendali sempre più prepotenti nell’imporre condizioni di lavoro massacranti, senza una retribuzione sufficiente a vivere, senza lavoro e senza presente e nemmeno futuro - che dicono allora, questi signori, del sistema dei padroni e dei governi, i quali fanno di tutto per devastare socialmente, economicamente, giuridicamente l’esistenza di milioni e milioni di persone, utenti o non utenti che siano?

Tacciono, perché il sistema dei padroni è il loro sistema e perché i governi sono i loro governi e tanto più possono infierire sui lavoratori e sugli utenti, quanto più il diritto di sciopero diventa impraticabile, sottraendo ai lavoratori uno dei pochissimi strumenti che hanno per difendersi, per tutelarsi, per non diventare irrimediabilmente degli schiavi.
E a questa sottrazione pensano giorno e notte, maniacalmente, loro, i vari Ichino, i vari Sacconi, sorta di mercenari al servizio dell’oppressione dei lavoratori e dello sfruttamento del lavoro.

Ichino, il ri-costituente
Così, si arriva ai ddl per regolare il conflitto sindacale nei trasporti pubblici, perché, non Cgil, Cisl e Uil, che fanno “ricorso molto cauto e sorvegliato allo sciopero” (afferma la presentazione del disegno di legge Ichino), ma “i sindacati autonomi” o i “comitati spontanei” fanno “un uso molto aggressivo e spregiudicato” dello sciopero, esercitando così “un forte potere d’interdizione”.
Allora, non è più adeguata a disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici la legge n. 146 del 1990, modificata e integrata con la legge n. 83 del 2000.
Ci vuole ben altro, ce lo chiedono i “padri costituenti” (ha il coraggio di affermare l’équipe Ichino), i quali hanno pensato lo sciopero “come strumento di lotta cui fare ricorso con grande misura e parsimonia”!!! E così l’art. 40 della Costituzione è servito: parola di Ichino.
Ne prendano atto i lavoratori del trasporto, quelli dei servizi di assistenza al volo, quelli dei servizi portuali e aeroportuali di terra, quelli di assistenza ai viaggiatori.

Così (prendiamo il ddl Ichino), nel settore dei trasporti lo sciopero aziendale può essere proclamato o da un sindacato o da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza in azienda (qui si richiama la normativa prevista dal famigerato Testo Unico sulla rappresentanza sindacale stipulato da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil il 10/1/2014).
Altrimenti, si deve dare luogo a un referendum partecipato da almeno la metà dei lavoratori interessati, dal quale la proclamazione dello sciopero ottenga un numero di voti favorevoli superiore alla metà dei voti espressi.
Per la proclamazione dello sciopero in una pluralità di imprese, valgono norme analoghe a quelle stabilite per lo sciopero aziendale.
Se sia rimasto qualcosa del diritto di sciopero come diritto soggettivo in capo a ogni singolo lavoratore è di certo arduo affermarlo, con la conseguenza che il diritto di sciopero non appartiene più al lavoratore, ma è prerogativa esclusiva delle organizzazioni sindacali.

Ce n’è anche per l’assemblea, e per tutti
Sempre il ddl Ichino (intervenendo sull’art. 20 dello Statuto dei lavoratori) si occupa anche del diritto di assemblea sindacale in orario di lavoro, la cui richiesta dev’essere presentata (“salvi i casi di motivata urgenza”. Ma chi lo stabilisce?), con almeno cinque giorni di anticipo rispetto al suo eventuale svolgimento, la cui collocazione temporale sarà comunque stabilita dal datore di lavoro tra il sesto e il decimo giorno dalla domanda.
Questa parte del ddl ha il sapore di rivolgersi a tutto il mondo del lavoro subordinato, ridimensionando gravemente il significato dell’assemblea, quale iniziativa improntata molto spesso alla necessità di affrontare collettivamente questioni, dibattere delle quali è cosa che non è possibile differire. Un po’ come dire che il ferro va battuto quando è caldo.

Già, ma nella logica aziendalistica che tutto va posto nell’ottica del raffreddamento e della conciliazione, l’assemblea deve essere depurata della funzione che potrebbe esserle assegnata di momento anche di protesta e quindi va collocata a distanza dalle problematiche che ne hanno fatto sorgere l’esigenza!
Quanto all’assemblea nel settore dei servizi pubblici (anche qui intervenendo sull’art. 20 dello Statuto dei lavoratori), il ddl stabilisce in generale che essa non può provocare l’interruzione del servizio pubblico (come è già per il trasporto pubblico locale), nel qual caso essa potrà svolgersi “in orario aggiuntivo”, con la “retribuzione ordinaria aggiuntiva corrispondente”. Che bravo, però, il professore!

Sapendo che la voglia di attaccare il diritto di sciopero in tutti i settori lavorativi è struggente negli ambienti del ministero del signor Poletti e nella Confindustria, non sarà il caso di cercare di mettere i piedi del movimento dei lavoratori su questa smania liberticida, che vede governo e padroni gareggiare a chi è più arrogante e forcaiolo?
Stavolta non possiamo restare a guardare, dobbiamo contrastare di brutto questo ulteriore passaggio di oppressione dei lavoratori e delle lavoratrici. Dobbiamo essere consapevoli che le sparate di Franceschini, già gravissime in sé, sono solo un tassello nel percorso governativo che mira a cancellare ogni diritto sindacale in tutto il mondo del lavoro subordinato.

Basta col ccnl, viva il “salario minimo”, viva Squinzi, viva Renzi!
Non possiamo restare a guardare, anche perché la “Banda Bassotti” confindustrial-governativa, inebriata dai successi finora riportati sul fronte del lavoro, in aggiunta alla cancellazione delle libertà sindacali è intenzionata ad espellere dal sistema delle relazioni sindacali quel poco che residua del contratto nazionale, dopo che Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e governo Ciampi l’avevano significativamente ridimensionato con l’accordo interconfederale del luglio 1993; e dopo che Cisl, Uil e Confindustria gli avevano assestato una ulteriore mazzata con l’accordo interconfederale del gennaio 2009, mentre la Cgil (prima con Epifani e poi con Camusso) se ne lamentò assai, ma l’accettò, salve poche eccezioni (per esempio, quella della Fiom), nella stipula della stragrande maggioranza dei rinnovi dei contratti nazionali di categoria.

Col “salario minimo” deciso dal governo (che, ci sarà da stare certi, “più minimo” non si potrà), il sistema delle imprese di ogni ordine e grado sarà messo al riparo dagli scioperi eventualmente necessari per rinnovare i contratti, perché l’aumento salariale sarà deciso fuori dalle relazioni sindacali, con metodi da regimi totalitari.
Così, saranno accolte in pieno le pretese di Confindustria, tutta protesa a liberarsi dall’impiccio di dovere rinnovare periodicamente i contratti nazionali, come sta avvenendo da tempo in diverse categorie e come Squinzi, il suo presidente, sta chiedendo da mesi a Cgil, Cisl e Uil, le quali cincischiano, sapendo che la cancellazione di fatto del contratto nazionale significa l’atto di morte formale della loro funzione, anche la più addomesticata.
Tanto meglio, quindi, che faccia tutto il governo, liberando i segretari generali dei tre sindacati dalla fastidiosa apposizione della loro firma in un accordo interconfederale sindacalmente liberticida. E poi c’è un copione a disposizione da sempre, quello che prevede qualche dichiarazione di protesta a mezzo stampa e TV e uno “sciopero generale” di qualche ora per far vedere (a chi?) che “ci siamo”.

L’obiettivo, dicono i “teorici” e i propugnatori del “salario minimo” per editto governativo, consiste nel rilanciare la contrattazione aziendale e quella territoriale, che oggi sarebbe ferma per la pesantezza dei salari conquistati con la contrattazione nazionale di categoria!!! E consiste nel rilanciare quella contrattazione integrativa, subordinandola a incrementi di produttività, perché qui l’Italia è col culo per terra rispetto alla concorrenza internazionale.

Non si dice, invece, che i salari del Belpaese sono tra i più bassi dei paesi “sviluppati” e che la capacità di essere competitive delle imprese italiane è tutta legata non solo ai vantaggi a loro garantiti da una dinamica salariale pressoché ferma, ma anche a quelli che i governi hanno loro assicurato/assicurano con la decontribuzione e la defiscalizzazione.
La legge di stabilità 2015 è chiara da questo punto di vista: miliardi alle imprese attraverso il “bonus” contributivo di euro 8.060 all’anno per 3 anni per ogni nuova assunzione a tempo indeterminato, più quelli relativi alla riduzione dell’IRAP, con tanto di massacro della spesa sociale, in termini di salassi al sistema sanitario, all’istruzione, al trasporto pubblico, ai servizi sociali.
E non si dice neppure che, in un sistema produttivo che ormai conosce livelli di sfruttamento del lavoro sempre più intensi e problematicamente intensificabili, la produttività non potrà che dipendere dall’innovazione tecnologica, cioè dagli investimenti, che ogni padrone non ha bisogno di effettuare finché gli dura la manna di sindacati confederali complici di una politica salariale al massimo ribasso e di governi che più confindustriali non si può quanto a elargizioni di tipo fiscale e contributivo. Manna confermata, stando alle anticipazioni, anche dalla legge di stabilità 2016.


Un trinomio da far saltare
Allora, il “salario minimo”, a meno di lotte diffuse e determinate per farlo sballare, resterà minimo, non solo per i dipendenti delle aziende (l’80% del totale), che la contrattazione decentrata non la conoscono da sempre, ma anche per quelli delle aziende dove esiste/è esistita, visto che da anni in moltissime di esse non solo non è più rinnovata, ma anche si sono azzerati, o quasi, i premi di risultato in cui consisteva/consiste.
Il “salario minimo” ha un vero obiettivo, quello di far precipitare il mondo del lavoro subordinato sempre più nella povertà, caposaldo, questo, del “nuovo modello di sviluppo” che nei decenni si è andato sempre più imponendo all’interno dell’economia globale e che ha ricevuto un impulso formidabile durante la crisi economica in corso da 7-8 anni, in modo spietato gestita dai governi e dalle imprese e co-gestita dai sindacati, compresi quelli confederali di casa nostra.

Povertà e schiavitù, insieme alla cancellazione dei diritti sindacali, in particolare quelli relativi allo sciopero e all’assemblea, sono il trinomio con cui il sistema economico intende governare il lavoro e la vita, oggi e nel futuro, di masse sterminate di lavoratori, non solo nel pubblico impiego, ma anche nel lavoro privato, compresi quelli dell’industria, i quali, se gli si lasciasse l’esercizio delle libertà sindacali, potrebbero fare il pensierino di usarle, anche massicciamente. Non sia mai!
Un trinomio che va fatto saltare, insieme agli strumenti repressivi di cui si avvale, quelli aziendali e quelli statuali, lavorando per una mobilitazione sul diritto di sciopero e di assemblea, sul ”salario minimo”, con cui stracciare l’agenda governativa/confindustriale e affermare la totale libertà di organizzazione e di azione sindacale, per andare a una stagione di lotte finalizzate all’uscita dalla miseria salariale e alla conquista generale di un salario dimensionato sui bisogni di chi lavora.

COBAS PISA
(14 ottobre 2015)

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