Diritto di sciopero e di assemblea nei servizi pubblici, e
non solo.
La contrattazione nazionale e la questione salariale.
A che punto siamo …
Il mese di luglio 2015 (dopo l’assemblea sindacale dei
lavoratori del sito archeologico di Pompei, con file di turisti in attesa che
finisse, e dopo le iniziative di lotta dei lavoratori del trasporto pubblico di
Roma, le une e le altre canagliescamente diffamate dall’informazione di regime)
ha scatenato la libera uscita di avvoltoi governativi.
A settembre, poi, è toccato ai lavoratori del Colosseo di
essere messi alla gogna come nemici dell’Italia, perché, dopo regolare
preavviso, hanno fatto un’assemblea di 2 ore, su prospettive occupazionali,
adeguamento dell’organico, pagamento di straordinari abbondantemente arretrati
, salario accessorio.
“L’assemblea non
doveva essere tenuta”, ha sbraitato in televisione Dario Franceschini,
ministrucolo della cultura.
“I turisti sono stati in coda, come a luglio a Pompei, in
attesa che l’assemblea finisse”, ha continuato a sbraitare, “e questo dà
un’immagine negativa dell’Italia”.
Come se lui e il suo governo l’immagine dell’Italia
all’estero, la dessero positiva.
E, con sacro furore totalitario, ha preso carta e penna e
s’è messo a scrivere un decreto-legge per abbattere libertà sindacali, quali il
diritto di sciopero e di assemblea, nei vari settori dei beni culturali (musei,
siti archeologici, ecc.), da considerare, secondo lui, quali servizi pubblici essenziali.
Da trattare, cioè, come se fossero servizi ospedalieri.
I segretari di categoria della Cisl e della Uil hanno preso
le distanze dai lavoratori in assemblea, aiutando così il governo Renzi nella
approvazione di nuove norme antisindacali, delegittimando la RSU che l’aveva
indetta, offrendo al governo la loro disponibilità a costruire insieme regole
più restrittive di quelle vigenti per il diritto di sciopero e di assemblea,
nonché riduttive del potere di contrattazione delle stesse RSU. E brave Cisl e
Uil!
Di che meravigliarsi?
L’iniziativa di Franceschini è stata salutata da applausi
scroscianti da parte dei nemici di lungo corso dei lavoratori, come i senatori
Ichino e Sacconi (tutt’e due di area governativa: il primo in quota PD, il
secondo, già socialista, poi forzista, oggi in quota NCD), i quali, tra l’altro,
avevano già depositato in parlamento disegni di legge finalizzati a cancellare
quel poco che esiste come diritto di sciopero e di assemblea in alcuni servizi
pubblici, come quello dei trasporti.
Anzi, rispetto alla libertà di tenere assemblee, essi vanno
più in là, perché vogliono colpire con norme liberticide tutto il mondo del
lavoro, senza distinzione tra settori pubblici e settori privati.
Di che meravigliarsi?
Questo è il governo del decreto Poletti, che ha ingigantito
la precarietà del lavoro rendendo infinito il calvario del lavoro a termine.
Questo è il governo del jobs act, che ha concesso ai padroni
pieno arbitrio di licenziare i nuovi assunti, di demansionare chi lavora, di
spiarlo con telecamere e strumenti di lavoro, quali cellulari e tablet; che ha
precarizzato gli ammortizzatori sociali, quali la cassa integrazione e i
contratti di solidarietà.
Questo è il governo che sta facendo riforme istituzionali
che intendono sopprimere ogni libertà.
A luglio come a settembre, per rendere niente più che
simbolico l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici, in
particolare nel settore dei trasporti, si sono rispolverati disegni di legge
(ddl), già presentati negli ultimi anni: quello del senatore Pietro Ichino nel
2009 e quello del compare Maurizio Sacconi nel 2014.
Anzi, Ichino, in buona compagnia di colleghe e colleghi del
PD, ne ha presentato un altro (il ddl n. 2006) il 14 luglio di quest’anno.
L’accoppiata
Sacconi e Ichino -vi pare strano?- hanno avuto nella loro
carriera esperienze sindacali nella Cgil.
Sacconi era entrato nella Fiom in gioventù, come dichiarò in
una intervita del 2008 (quando divenne ministro del lavoro con l’ultimo governo
Berlusconi per restarci fino al 2011, anno in cui in pieno agosto emanò il
decreto legge n. 138 tuttora in vigore, che all’art. 8 prevede la deroga a
livello di contrattazione aziendale di norme presenti nei contratti nazionali e
nelle leggi), soprattutto perché voleva opporsi a quegli “estremisti dalla
pancia piena” che, a suo dire, erano i giovani e meno giovani che nel
“sessantotto” lottavano nelle fabbriche e nelle scuole, nei quartieri e nelle
piazze.
Ichino dal 1969 al 1972 se l’era fatta con la Fiom come
dirigente, per passare dal 1973 al 1979 a dirigere l’Ufficio legale della
Camera del lavoro di Milano, facendosi lì le ossa per diventare un accademico,
con tanto di docenza universitaria, in diritto sindacale e del lavoro. Chapeau,
professore, anche per la sua abilità a non perdere occasione per sputare veleno
sui lavoratori, come ha fatto nell’intervista rilasciata alla “Repubblica”
dell’11 ottobre sul cosiddetto “salario minimo” e sulla fine della
contrattazione nazionale: un esempio di politica sindacale di alta ispirazione
democratica!!!
I due esimi moschettieri sono impegnati a combattere il
diritto di sciopero, perché -nientemeno- hanno a cuore, come dichiarano senza
vergognarsi, i diritti degli utenti dei servizi pubblici, terreno, come tutti
gli altri settori lavorativi, di possibili scioperi.
Quando gli utenti sono oggetto di tasse a sovrattasse; di
ticket sanitari più che esosi; di liste d’attesa di mesi e mesi per una visita
specialistica o per un esame; di code e code nelle ore di punta alle fermate
degli autobus; di mezzi di trasporto, compresi quelli ferroviari, che più
sgangherati non si può (tant’è vero che viaggiano con ritardi spesso clamorosi
o saltano corse su corse); di scuole e aule fatiscenti, in cui i lavori di
restauro e manutenzione vengono rinviati all’infinito; quando gli utenti, che
molto spesso non sono dei nababbi ma dei lavoratori dipendenti o dei
disoccupati, si ritrovano di anno in anno sempre più senza diritti, alla mercé
di gerarchie aziendali sempre più prepotenti nell’imporre condizioni di lavoro
massacranti, senza una retribuzione sufficiente a vivere, senza lavoro e senza
presente e nemmeno futuro - che dicono allora, questi signori, del sistema dei
padroni e dei governi, i quali fanno di tutto per devastare socialmente,
economicamente, giuridicamente l’esistenza di milioni e milioni di persone,
utenti o non utenti che siano?
Tacciono, perché il sistema dei padroni è il loro sistema e
perché i governi sono i loro governi e tanto più possono infierire sui
lavoratori e sugli utenti, quanto più il diritto di sciopero diventa
impraticabile, sottraendo ai lavoratori uno dei pochissimi strumenti che hanno
per difendersi, per tutelarsi, per non diventare irrimediabilmente degli
schiavi.
E a questa sottrazione pensano giorno e notte,
maniacalmente, loro, i vari Ichino, i vari Sacconi, sorta di mercenari al
servizio dell’oppressione dei lavoratori e dello sfruttamento del lavoro.
Ichino, il ri-costituente
Così, si arriva ai ddl per regolare il conflitto sindacale
nei trasporti pubblici, perché, non Cgil, Cisl e Uil, che fanno “ricorso molto
cauto e sorvegliato allo sciopero” (afferma la presentazione del disegno di
legge Ichino), ma “i sindacati autonomi” o i “comitati spontanei” fanno “un uso
molto aggressivo e spregiudicato” dello sciopero, esercitando così “un forte
potere d’interdizione”.
Allora, non è più adeguata a disciplinare l’esercizio del
diritto di sciopero nei servizi pubblici la legge n. 146 del 1990, modificata e
integrata con la legge n. 83 del 2000.
Ci vuole ben altro, ce lo chiedono i “padri costituenti” (ha
il coraggio di affermare l’équipe Ichino), i quali hanno pensato lo sciopero
“come strumento di lotta cui fare ricorso con grande misura e parsimonia”!!! E
così l’art. 40 della Costituzione è servito: parola di Ichino.
Ne prendano atto i lavoratori del trasporto, quelli dei
servizi di assistenza al volo, quelli dei servizi portuali e aeroportuali di
terra, quelli di assistenza ai viaggiatori.
Così (prendiamo il ddl Ichino), nel settore dei trasporti lo
sciopero aziendale può essere proclamato o da un sindacato o da una coalizione
sindacale che abbia la maggioranza in azienda (qui si richiama la normativa
prevista dal famigerato Testo Unico sulla rappresentanza sindacale stipulato da
Confindustria e Cgil, Cisl e Uil il 10/1/2014).
Altrimenti, si deve dare luogo a un referendum partecipato
da almeno la metà dei lavoratori interessati, dal quale la proclamazione dello
sciopero ottenga un numero di voti favorevoli superiore alla metà dei voti
espressi.
Per la proclamazione dello sciopero in una pluralità di
imprese, valgono norme analoghe a quelle stabilite per lo sciopero aziendale.
Se sia rimasto qualcosa del diritto di sciopero come diritto
soggettivo in capo a ogni singolo lavoratore è di certo arduo affermarlo, con
la conseguenza che il diritto di sciopero non appartiene più al lavoratore, ma
è prerogativa esclusiva delle organizzazioni sindacali.
Ce n’è anche per l’assemblea, e per tutti
Sempre il ddl Ichino (intervenendo sull’art. 20 dello
Statuto dei lavoratori) si occupa anche del diritto di assemblea sindacale in
orario di lavoro, la cui richiesta dev’essere presentata (“salvi i casi di
motivata urgenza”. Ma chi lo stabilisce?), con almeno cinque giorni di anticipo
rispetto al suo eventuale svolgimento, la cui collocazione temporale sarà
comunque stabilita dal datore di lavoro tra il sesto e il decimo giorno dalla
domanda.
Questa parte del ddl ha il sapore di rivolgersi a tutto il
mondo del lavoro subordinato, ridimensionando gravemente il significato
dell’assemblea, quale iniziativa improntata molto spesso alla necessità di
affrontare collettivamente questioni, dibattere delle quali è cosa che non è
possibile differire. Un po’ come dire che il ferro va battuto quando è caldo.
Già, ma nella logica aziendalistica che tutto va posto
nell’ottica del raffreddamento e della conciliazione, l’assemblea deve essere
depurata della funzione che potrebbe esserle assegnata di momento anche di
protesta e quindi va collocata a distanza dalle problematiche che ne hanno
fatto sorgere l’esigenza!
Quanto all’assemblea nel settore dei servizi pubblici (anche
qui intervenendo sull’art. 20 dello Statuto dei lavoratori), il ddl stabilisce
in generale che essa non può provocare l’interruzione del servizio pubblico
(come è già per il trasporto pubblico locale), nel qual caso essa potrà
svolgersi “in orario aggiuntivo”, con la “retribuzione ordinaria aggiuntiva
corrispondente”. Che bravo, però, il professore!
Sapendo che la voglia di attaccare il diritto di sciopero in
tutti i settori lavorativi è struggente negli ambienti del ministero del signor
Poletti e nella Confindustria, non sarà il caso di cercare di mettere i piedi
del movimento dei lavoratori su questa smania liberticida, che vede governo e
padroni gareggiare a chi è più arrogante e forcaiolo?
Stavolta non possiamo restare a guardare, dobbiamo
contrastare di brutto questo ulteriore passaggio di oppressione dei lavoratori
e delle lavoratrici. Dobbiamo essere consapevoli che le sparate di
Franceschini, già gravissime in sé, sono solo un tassello nel percorso
governativo che mira a cancellare ogni diritto sindacale in tutto il mondo del
lavoro subordinato.
Basta col ccnl, viva il “salario minimo”, viva Squinzi, viva
Renzi!
Non possiamo restare a guardare, anche perché la “Banda
Bassotti” confindustrial-governativa, inebriata dai successi finora riportati
sul fronte del lavoro, in aggiunta alla cancellazione delle libertà sindacali è
intenzionata ad espellere dal sistema delle relazioni sindacali quel poco che
residua del contratto nazionale, dopo che Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e
governo Ciampi l’avevano significativamente ridimensionato con l’accordo
interconfederale del luglio 1993; e dopo che Cisl, Uil e Confindustria gli
avevano assestato una ulteriore mazzata con l’accordo interconfederale del
gennaio 2009, mentre la Cgil (prima con Epifani e poi con Camusso) se ne
lamentò assai, ma l’accettò, salve poche eccezioni (per esempio, quella della
Fiom), nella stipula della stragrande maggioranza dei rinnovi dei contratti
nazionali di categoria.
Col “salario minimo” deciso dal governo (che, ci sarà da
stare certi, “più minimo” non si potrà), il sistema delle imprese di ogni
ordine e grado sarà messo al riparo dagli scioperi eventualmente necessari per
rinnovare i contratti, perché l’aumento salariale sarà deciso fuori dalle
relazioni sindacali, con metodi da regimi totalitari.
Così, saranno accolte in pieno le pretese di Confindustria,
tutta protesa a liberarsi dall’impiccio di dovere rinnovare periodicamente i
contratti nazionali, come sta avvenendo da tempo in diverse categorie e come
Squinzi, il suo presidente, sta chiedendo da mesi a Cgil, Cisl e Uil, le quali
cincischiano, sapendo che la cancellazione di fatto del contratto nazionale
significa l’atto di morte formale della loro funzione, anche la più
addomesticata.
Tanto meglio, quindi, che faccia tutto il governo, liberando
i segretari generali dei tre sindacati dalla fastidiosa apposizione della loro
firma in un accordo interconfederale sindacalmente liberticida. E poi c’è un
copione a disposizione da sempre, quello che prevede qualche dichiarazione di
protesta a mezzo stampa e TV e uno “sciopero generale” di qualche ora per far
vedere (a chi?) che “ci siamo”.
L’obiettivo, dicono i “teorici” e i propugnatori del
“salario minimo” per editto governativo, consiste nel rilanciare la
contrattazione aziendale e quella territoriale, che oggi sarebbe ferma per la
pesantezza dei salari conquistati con la contrattazione nazionale di
categoria!!! E consiste nel rilanciare quella contrattazione integrativa,
subordinandola a incrementi di produttività, perché qui l’Italia è col culo per
terra rispetto alla concorrenza internazionale.
Non si dice, invece, che i salari del Belpaese sono tra i
più bassi dei paesi “sviluppati” e che la capacità di essere competitive delle
imprese italiane è tutta legata non solo ai vantaggi a loro garantiti da una
dinamica salariale pressoché ferma, ma anche a quelli che i governi hanno loro
assicurato/assicurano con la decontribuzione e la defiscalizzazione.
La legge di stabilità 2015 è chiara da questo punto di
vista: miliardi alle imprese attraverso il “bonus” contributivo di euro 8.060
all’anno per 3 anni per ogni nuova assunzione a tempo indeterminato, più quelli
relativi alla riduzione dell’IRAP, con tanto di massacro della spesa sociale,
in termini di salassi al sistema sanitario, all’istruzione, al trasporto
pubblico, ai servizi sociali.
E non si dice neppure che, in un sistema produttivo che
ormai conosce livelli di sfruttamento del lavoro sempre più intensi e
problematicamente intensificabili, la produttività non potrà che dipendere
dall’innovazione tecnologica, cioè dagli investimenti, che ogni padrone non ha
bisogno di effettuare finché gli dura la manna di sindacati confederali
complici di una politica salariale al massimo ribasso e di governi che più
confindustriali non si può quanto a elargizioni di tipo fiscale e contributivo.
Manna confermata, stando alle anticipazioni, anche dalla legge di stabilità
2016.
Un trinomio da far saltare
Allora, il “salario minimo”, a meno di lotte diffuse e
determinate per farlo sballare, resterà minimo, non solo per i dipendenti delle
aziende (l’80% del totale), che la contrattazione decentrata non la conoscono
da sempre, ma anche per quelli delle aziende dove esiste/è esistita, visto che
da anni in moltissime di esse non solo non è più rinnovata, ma anche si sono
azzerati, o quasi, i premi di risultato in cui consisteva/consiste.
Il “salario minimo” ha un vero obiettivo, quello di far
precipitare il mondo del lavoro subordinato sempre più nella povertà,
caposaldo, questo, del “nuovo modello di sviluppo” che nei decenni si è andato
sempre più imponendo all’interno dell’economia globale e che ha ricevuto un
impulso formidabile durante la crisi economica in corso da 7-8 anni, in modo
spietato gestita dai governi e dalle imprese e co-gestita dai sindacati,
compresi quelli confederali di casa nostra.
Povertà e schiavitù, insieme alla cancellazione dei diritti
sindacali, in particolare quelli relativi allo sciopero e all’assemblea, sono
il trinomio con cui il sistema economico intende governare il lavoro e la vita,
oggi e nel futuro, di masse sterminate di lavoratori, non solo nel pubblico
impiego, ma anche nel lavoro privato, compresi quelli dell’industria, i quali,
se gli si lasciasse l’esercizio delle libertà sindacali, potrebbero fare il
pensierino di usarle, anche massicciamente. Non sia mai!
Un trinomio che va fatto saltare, insieme agli strumenti
repressivi di cui si avvale, quelli aziendali e quelli statuali, lavorando per
una mobilitazione sul diritto di sciopero e di assemblea, sul ”salario minimo”,
con cui stracciare l’agenda governativa/confindustriale e affermare la totale
libertà di organizzazione e di azione sindacale, per andare a una stagione di
lotte finalizzate all’uscita dalla miseria salariale e alla conquista generale
di un salario dimensionato sui bisogni di chi lavora.
COBAS PISA
(14 ottobre 2015)
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